Per me sarebbe impossibile, ormai, fare un’impresa qualsiasi senza imbarcare i giovani. Per molti motivi. Questo è uno.
Lo scontro generazionale non è una fissazione da sociologi o un loop da serie tv. È una dinamica che sperimentiamo ogni giorno, sul lavoro o in famiglia, e ha a che fare con gli aspetti più diversi, i tic, il linguaggio, le ambizioni, il potere, i sentimenti. Il fronte più caldo è sul lavoro: il paternalismo e l’attaccamento alle poltrone dei boomers (1946-64) e della generazione X (1965-80) mal si concilia con lo spazio reclamato dai millennial (1981-95).
Non è solo una questione di chi comanda, ma anche di cosa si decide. Prendiamo e denaro e finanza, per esempio: l’atteggiamento dei più giovani diverge da quello dei predecessori fino a spiazzarli. Gillian Tett, sul FT, racconta a questo proposito l’esito di una serie di sondaggi rivelatori. Uno di Fidelity, il gestore patrimoniale di Boston, tra persone che avevano dato in beneficenza almeno mille dollari nell’ultimo anno, riguardava proprio il «donare». Ebbene: tra i boomers si definiva «filantropo» il 35%, tra i Gen X il 48, tra i millennial uno sbalorditivo 74%.
Non solo: «L’87% dei millennial vuole lavorare per una compagnia che si impegni nella responsabilità aziendale. Il 65% compra solo da aziende responsabili e il 43% si impegna nell’impact investing (i progetti a impatto sociale e ambientale positivo)», contro «un misero 12% dei boomers».
Non è l’unica indagine che va in questo senso: «Un sondaggio del 2019 di Morgan Stanley ha mostrato che il 95% dei millennial sostiene gli investimenti sostenibili, rispetto all’85% di tutti gli investitori. Uno studio di Allianz ha notato che il 64% dei millennial ha preso decisioni di investimento basate sui valori, rispetto al 42% dei boomers. E un rapporto di US Trust ha notato che il 76% dei millennial considera l’impatto ambientale quando investe, contro solo il 29% dei boomers».
Ora, uno potrebbe pensare che è roba da ricchi, che le persone sondate facciano parte di un segmento di popolazione non indicativo. Non è proprio così. Anzitutto, mutatis mutandis, queste differenze si notano in tutte le fasce di reddito, con i giovani chiaramente più propensi ai valori della sostenibilità, del rispetto dell’ambiente e della solidarietà. E questo nonostante condizioni economiche spesso molto svantaggiate rispetto ai genitori, e con davanti un futuro incertissimo. In secondo luogo, anche considerando solo i ricchi, gli attuali millennial erediteranno nei prossimi anni e decenni patrimoni tra il considerevole e il gigantesco, e questo – se manterranno gli orientamenti attuali – potrebbe cambiare totalmente l’approccio alla finanza e agli investimenti.
Qui viene in mente, inevitabilmente, la cinica considerazione contro l’idealismo giovanile attribuita a Winston Churchill: «Se un uomo non è socialista a 20 anni, non ha cuore. Se non è un conservatore a 40 anni, non ha cervello». Ma se invece i millennial ricchi smentiranno il grande statista e manterranno l’atteggiamento attuale, «potrebbe accelerare lo spostamento verso l’investimento basato sul valore. È anche probabile che acceleri la tendenza a utilizzare le piattaforme digitali per ottenere una migliore supervisione delle aziende e più trasparenza».
I millennial, infatti – e questo aspetto riguarda tutti, a prescindere dal reddito – sono fortemente influenzati dalla tecnologia, sia come fonte di ispirazione/informazione sia come strumento per realizzare le loro scelte: tutte le loro scelte. Quelle finanziarie, quelle di consumo, quelle di carriera, finiscono per fondersi con la propensione filantropica in un flusso ininterrotto che parte dalle campagne social e finisce con l’indice sul cellulare che sposa soldi – in acquisti, donazioni, investimenti – su una piattaforma digitale.
È il contrario di quella che gli anglosassoni chiamano tunnel vision – e noi tradurremmo col ragionare per compartimenti stagni – quando parliamo di finanza, politica o questioni sociali. Per i millennial è tutto davvero interconnesso, non c’è visione dell’economia che prescinda dalle considerazioni ambientali.
I gestori patrimoniali l’hanno capito, e quindi il mantra dell’ESG (environmental, social and corporate governance, la cura delle questioni socio-ambientali nella direzione di un’azienda) ha contagiato tutta l’industria finanziaria. È chiaramente marketing, teso ad acchiappare la ricchezza di una generazione. Può anche essere una pura finzione (il greenwashing). Eppure è anche qualcosa che fa sperare: cuore e cervello, con buona pace di Churchill, non sono poi così distanti. C’è una vicinanza che le nuove generazioni potrebbero mantenere anche invecchiando. E allora tutto migliorerebbe.
(Fonte delle notizie: Financial Time)